Il 25 novembre 1985, all’età di settantatré anni, muore in una camera della clinica romana «Margherita» in viale di Villa Massimo, una traversa della Nomentana, la scrittrice Elsa Morante.
Nel panorama della Letteratura del Novecento, Elsa Morante è un «angelo armato di penna» (A. Moravia), una scrittrice mistica tra «menzogna e sortilegio», la prima autrice a vincere, il 4 luglio 1957, il Premio Strega con L’isola di Arturo, una «narratrice nata» – «Di te, Finzione, mi cingo, / fatua veste» («Alla favola», in Alibi) e ancora «fra le tante spose io sola, unica io, / so con bellissime fiabe consolare la notte» («Shererazade»). Elsa Morante offre alla letteratura – osserva con acume il professore Giulio Ferroni – tutta la propria esistenza.
Negli anni Settanta Elsa Morante attraversa, vive una crisi personale e intellettuale che «coincide con il rivelarsi dei nuovi caratteri della società di massa, con l’affermazione della neoavanguardia, col diffondersi delle forme di contestazione e di rifiuto proprio della nuova sinistra […] avverte fino in fondo il lacerarsi di quel mondo incantato di quell’Italia magica e favolosa che aveva rappresentato nell’Isola di Arturo» (G. Ferroni).
Il Sessantotto, la prima esplosiva manifestazione della globalizzazione (M. Revelli) mette in discussione la società, o meglio, le società e il loro rapporto con la politica, il potere (come non ricordare l’articolo-intervento di Romano Luperini «Quale politica, quale cultura?» in «Libri nuovi» del gennaio 1976).
La prima manifestazione «politica» della Morante si palesa nella conferenza Pro o contro la bomba atomica tenuta e letta a Torino nel 1965, raccolta, poi, nel volume postumo Pro o contro la bomba atomica e altri scritti (1987).
Nel «rivoluzionario» anno 1968 – una data fatidica, epocale nella quale l’insieme della società italiana sogna ma soprattutto è attraversata dalla volontà di un profondo rinnovamento politico e morale – Elsa Morante pubblica Il mondo salvato dai ragazzini. Un «libro di grandi slanci, anche formali. Non c’è nulla nella tradizione letteraria italiana che gli assomigli anche lontanamente. Il poemetto, il teatro, la poesia visiva, il libello sono mescolati con un’alchimia che sembra far esplodere l’oggetto libro, proiettare il testo fuori dalle pagine, anche graficamente: come un appello che esca da una gabbia e vada alla ricerca dei «ragazzini» di tutto il mondo. Un inno all’adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come visione politica per cambiare il mondo. Per questo è il libro che concentra e riassume tutti gli altri libri di Elsa Morante» (dalla Prefazione di G. Fofi). Pier Paolo Pasolini lo definisce un «manifesto politico scritto con la grazia della favola, con umorismo, con gioia».
Il mondo salvato dai ragazzini ed altri poemi vuole rivolgersi ai «Felici Pochi», ovvero ai fanciulli, agli adolescenti, che mantengono la coscienza e il senso della bellezza, i soli a credere che il mondo sia proprio come appare.
Nel 1974 è pubblicata la sua opera più significativa, La Storia. Un romanzo «che fece discutere l’Italia di destra e di sinistra» (C. Garboli). Ma la stessa Morante lo definisce non un «romanzo» ma un «manifesto, un’azione politica». Pensato, ideato tra il 1971 e il 1973, il nuovo capolavoro della Morante servendosi delle parole dell’evangelista Luca, messe in esergo, formula un’esplicita condanna della Storia; Elsa Morante preferisce, sceglie le storie dei «piccoli», di un’umanità umile, fragile e indifesa. La Storia, nel mondo dell’editoria, vanta due eccezionalità. È pubblicato direttamente nella collana economica «Gli Struzzi» perché è un libro che vuol parlare di tutti. Per La Storia la casa editrice torinese Einaudi idea la prima pubblicità a pagina intera di un libro su un quotidiano, pubblicità che appare sul «Corriere della Sera» del 20 giugno 1974. La Storia è un romanzo di dolore, di grande tensione, di disperazione ma anche di profonda bellezza, misericordia, saggezza.
Le tristi vicende degli anni Settanta, la malattia, la tragica fine dell’amato amico Pier Paolo Pasolini, la vecchiaia gravano addosso sul corpo, sulla psiche di Elsa Morante.
Nel marzo del 1980, dopo essere stata al cinema a vedere Manhattan di Woody Allen, inciampa in un gradino del ristorante «Giggetto» al Portico d’Ottavia fratturandosi il femore. Un incidente dal quale non si riprenderà più. Rifiuta per ben due volte di farsi operare.
Il 6 aprile 1983 tenta il suicidio con il gas e ingerendo Nembutal. Viene salvata dalla governante, Lucia Mansi (un’interessante coincidenza di omonimia con il protagonista della Disobbedienza di Moravia, Luca Mansi). Quella mattina Lucia arriva provvidenzialmente in anticipo sul suo orario abituale. Nel corso delle analisi mediche che seguono al gesto disperato, viene diagnosticata un’idrocefalia incurabile. Elsa Morante passa gli ultimi due anni di vita in una clinica di Roma quasi sempre costretta a letto.
L’ultimo testo, manoscritto, di Elsa Morante porta la data 1° gennaio 1985: «Soltanto oggi mi si risveglia nella memoria quell’incanto che pure lasciò qualche segno nella mia vita. C’è stato di mezzo un intervallo di tenebre e oblio totale, come se il fiume Lete mi avesse inghiottito dopo».
Muore d’infarto nella sua camera della clinica Margherita, il 25 novembre 1985, a mezzogiorno. Adriano Sofri racconta, in Festa per Elsa (Sellerio), che la Morante aveva soprannominato la clinica «Villa Gherardesca» ispirandosi probabilmente al conte Ugolino, celebre personaggio del canto XXXIII dell’Inferno di Dante. Nei giorni finali, come libro sul comodino, teneva l’Inferno di Dante.
Poco prima che morisse, Dacia Maraini era andata a farle visita. C’era anche Carlo Cecchi, seduto sul davanzale della finestra.
La cerimonia religiosa dei funerali si svolge nella chiesa di Santa Maria del Popolo, molto vicina ai due indirizzi di Elsa, via del Babuino e via dell’Oca, il 27 novembre, il giorno precedente il settantottesimo compleanno di Alberto Moravia. Aveva chiesto che si suonasse il Flauto magico di Mozart, le prime canzoni di Bob Dylan e la Passione secondo San Matteo di Bach, ma fu esaudito solo il terzo desiderio, perché l’organista non aveva a disposizione le altre partiture.
Dapprima, le ceneri vengono inumate al cimitero Verano di Roma. Solo un anno dopo, nel maggio 1986 Carlo Cecchi dissotterra le ceneri e le sparge al largo dell’isola di Procida.