Tullio De Mauro: il timoniere e la bussola della nostra lingua

Articolo di Pietro Salvatore Reina

Il 5 gennaio 2017, a Roma, muore a 84 anni, uno dei nostri maggiori linguisti: il professore Tullio De Mauro. Fratello di Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano «L’Ora» di Palermo ucciso dalla mafia nel 1970, Tullio De Mauro introduce in Italia, grazie al suo maestro, il professore di Glottologia Antonino Pagliaro, il pensiero, le opere e le parole-chiave («langue, langage e parole, sincronia, e acronia») di Ferdinand de Saussure.

Nel suo saggio Parole di giorni lontani, che si legge voracemente come un romanzo, il docente De Mauro rivela e ci fa conoscere il suo ambiente famigliare, la madre che gli proponeva giochi con i versi di Dante, ma anche Leopardi, rendendoli vivi, utili per leggere la realtà, per insegnargli a leggere la realtà. Una lezione che farà sua in modo originale e singolare.

La sua lezione, lunga tutta una vita, si può arditamente riassumere nell’essere stato una «bussola» che ha guidato, capito, studiato la lingua di noi Italiani come pochi altri prima di lui.

Per l’accademico dei Licei in principio c’è la parola (titolo di un suo libro edito da Il Mulino): «l’uomo- tra tutti gli animali – ha il linguaggio (logos) – Aristotele docet – ma aggiunge il professore De Mauro «il linguaggio umano, diversamente dal linguaggio degli animali, ha la capacità di memoria, di evocazione di memorie, e di progetto».

Oggigiorno sui social, sui giornali, in televisione nel nostro quotidiano il linguaggio sovente si fa strame e quando «si fa strame di un linguaggio si fa strame di un pensiero» (da decenni lo scrivono U. Eco, M. Cacciari, U. Galimberti).

La memoria del professore De Mauro ci ricordi che la lingua è il «fondamento della comunità». Dovremmo farne uso con intelligenza e saggezza in quanto suprema manifestazione del nostro essere Sapiens.

Infine, non posso non ricordare ancora una volta il grande amore del professore De Mauro per Dante e la sua lingua. Spesso gli capitava di recitare a memoria e con passione e commozione il Canto XXVI del Paradiso:

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta

innanzi che a l’ovra inconsummabile

fosse la gente di Nembròt attenta:

ché nullo effetto mai razionabile,

per lo piacere uman che rinovella

seguendo il cielo, sempre fu durabile.

Opera naturale è ch’uom favella;

ma così o così, natura lascia

poi fare a voi secondo che v’abbella.

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,

I s’appellava in terra il sommo bene

onde vien la letizia che mi fascia;

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