Sul rapporto tra Piero Chiara e Mauro della Porta Raffo ci sarebbero da scrivere delle pagine avvincenti tanto per arricchire la misura di un uomo che della sua narrativa aveva fatto uno specchio mirabile dell’anima: lacustre, poiché tenacemente radicata ai luoghi d’infanzia; e sicula, dacché celatamente legata all’isola per ragioni di sangue e per quel suo modo unico di rendere l’arte dei fatti come gli antichi cantastorie carovanieri.
Mauro della Porta Raffo l’unico allievo di Piero Chiara, da par suo, ha cercato di ricostruire questo rapporto nel corso del tempo attraverso opere (tra le quali ricordo l’oramai introvabile: Piero Chiara, Macchione Editore), saggi, monografie (preziosa quella a lui dedicata con il numero speciale della pubblicazione «Dissensi & discordanze»), mostre, interviste (straordinaria l’inchiesta letteraria di Filippo Brusa «L’Altro Chiara»), che hanno sempre aggiunto quel pizzico di vita inconsueto, mai agiografico, anzi gagliardo, odoroso d’avventura; un’ultima fiamma superstite che ancora aleggiava tra il torpore dei ricordi ora vividi, ora accantonati, pronti a riemergere tra le increspature del lago, o caduti improvvisamente come segnalibro seppellito chissà in quale sua pagina.
In genere da questi ricordi lucidissimi traspaiono una serie di verità. La più importante è senza dubbio un chiarimento sacrosanto della lirica chiariana. Infatti l’accusa che spesso si muoveva contro il romanziere luinese era la consueta “facilità” della sua scrittura, troppo prona a volgere la girandola dei fatti, come se sarebbe facile del resto auscultare i propri ricordi e tramutarli in fatti di vita comune, specchi cristallini di una profonda riflessione su una grande varietà di temi: la crisi posteriore dell’io dinnanzi alla barbarie del secondo conflitto mondiale; il vuoto generazionale creato; la mitologia degli espedienti di un mondo sottosopra; la nascita di una borghesia rampante negli anni prima del boom; e tanto altro ancora. Di certo si trattava di un’accusa quanto mai ovvia in un panorama letterario allora di grandi nomi, i cui prodotti fungevano da status symbol per i lettori, una sorta di ad captandum vulgus, nei confronti di un autore che aveva vissuto ai margini della grande società letteraria. Uno svantaggio colmato solo con le enormi vendite: Mauro Novelli nelle sue biografie lo specifica sempre.
La scrittura di Chiara invece è ricerca e riproduzione di un humus fertilissimo di lettore dei grandi capolavori (romanzieri russi e francesi) et in secundis di lettore della vita cioè di quei minuscoli movimenti meccanici che adopriamo nel corso della nostra esistenza terrena. I due aspetti sono collegati, perché Chiara riuscì a tramutare un intero florilegio di racconti di vita in letteratura, cioè in una misura di spazio cartaceo, che si animava interiormente ripescando il proprio vissuto e esteriormente regalandone un altro nella sua sommessa liricità della sua prosa.
Anche di questa sommessa liricità Mauro dalla Porta Raffo se ne è fatto portatore regalandoci con la sua incessante attività i momenti più importanti di un uomo prestato alla letteratura della vita: all’altra carrozza del mondo letterario diceva di appartenere lo scrittore, non sapendo che era la carrozza giusta per dipingere quello che molti occhi non erano in grado di osservare con una prosa sapida ed estremamente divertente nei momenti di luce e nei suoi coni d’ombra.
Tempo fa nella corrispondenza che intrattengo con Mauro della Porta Raffo ho ricevuto un suo componimento poetico “Eri più magro” dal verso libero che ritrae negli ultimi momenti di vita di Piero Chiara un abbecedario di abitudini molto semplici o meglio ancora un sacro rituale (si noti l’euforia della punteggiatura che accoglie le pauese e registra perfino i silenzi) e che si chiude con un accenno all’uovo, al principio della vita, di una vita che sfugge ma che non smette ancora nei suoi ultimi momenti di chiedere, di sapere, forse per l’ultimo grande racconto, il più bello a non aver ancora letto.
Eri più magro.
La Primavera, verde.
I momenti, giusti.
Delle alzate mattutine.
Per tempo.
Della giacca impermeabile, di velluto.
Della macchinata.
Della fermata da Geo.
Del caffè… bevevi ancora il caffè…
Della sigaretta, buona… fumavi…
Del Corriere e della Gazzetta.
Piegati e messi lì, accanto, per dopo.
Del posteggio libero, facile.
Dei tre minuti a piedi col bavero alto che se pioveva piano piano era ancora meglio.
Dei cenni di capo e di un paio di ciao.
Dell’erba ancora brinata.
E dei cavalli.
Con Tizio che prendeva i tempi.
E sapere che contava la scena.
E che prima di andartene avresti chiesto ‘Vince?’ non importando poi davvero la risposta.
Che di lì a poco, al tuo posto, avresti guardato il Rosa, oltre il Lago…
Che vicino, da Pippo, ti aspettavano le uova.
Al tegamino.
Tutta Vita!