Dopo sette anni di galera, il 17 Febbraio del 1600, Giordano Bruno fu bruciato vivo a Campo de’ Fiori. Fu condotto al patibolo con la mordacchia, l’apparecchio che impediva al condannato di aprire bocca per parlare: si temeva che Bruno potesse arringare la folla e denunciare il tribunale che lo aveva condannato e con esso delegittimare il potere papale di cui era espressione. Resistette fino alla fine perché aveva compreso, al contrario di Galileo che giunse all’abiura, che poteva dar valore alle sue idee sacrificando quanto aveva di più caro: la vita. Il suo messaggio non è scomparso con lui; anzi, col tempo e con il progressivo affermarsi dei principi della tolleranza e della libertà di coscienza e di religione, il rogo di Campo de’ Fiori è diventato un atto accusa contro la pretesa della Chiesa di diffondere il messaggio evangelico reprimendo con violenza ogni “eresia”.
Giordano Bruno, nato a Nola nel 1548, entrò nel convento di San Domenico Maggiore nel 1565 vestendo l’abito di novizio domenicano; si trattò, probabilmente, di una scelta di convenienza dato che il nolano era già orientato in senso antitrinitario: l’antitrinitarismo è connesso, infatti, al nocciolo speculativo originario della sua filosofia: si intreccia alla concezione della divinità, degli attributi divini, alla visione del rapporto tra finito e infinito.
Nel 1576 fuggì a Roma, ma se ne allontanò poco dopo e iniziarono le peregrinazioni per l’Italia e l’Europa; rientrò in Italia e venne imprigionato e processato a Venezia per eresia dal tribunale della locale Inquisizione. Nel 1593 venne trasferito a Roma, dove rimase fino alla sua morte.
Con la forza speculativa che tutti gli riconoscono scaturì la messa a fuoco di alcuni nodi fondamentali del pensiero moderno: il rapporto tra finito e infinito, tra libertà e necessità, tra individualità e universalità, tra tempo e eternità, tra vicenda ciclica e costruzione umana, tra mondi e universo, tra luce e ombra. Egli, del resto, rivendicò pienamente il diritto alla libertà della ricerca, del filosofare, che viene affermata contro la tendenza a delimitarlo e a ridurlo, da parte delle diverse scuole accademiche e delle autorità religiose.
In realtà Bruno è un pensatore anticristiano. Non crede che esistano Inferno, Purgatorio e Paradiso; né crede all’immortalità dell’anima individuale, bensì alla metasomatosi: l’anima da un corpo passa ad un altro, anche di animale, e la superiorità dell’uomo sul serpente non è data dall’anima ma dalla mano. Infatti, l’inquisitore Bellarmino gli impose ripetutamente di spiegare il rapporto tra corpo e anima; quanto a Cristo, Bruno lo giudica un cattivo mago che non resse la sofferenza e chiese aiuto al Padre. Ancora: non crede al peccato originale, rifiuta la creazione nei termini della tradizione tridentina, non accetta la Trinità, respinge l’Incarnazione perché riduce l’Infinito al finito; predilige come sapienza vera quella antica egizia e non quella cristiana, che anzi considera un’età delle tenebre nella storia dell’uomo, prima che ritorni finalmente l’età della luce, quella egizia di cui lui stesso si propone messaggero.
A distanza di quattrocento anni la Chiesa cattolica chiede scusa per il rogo, ma non procede alla riabilitazione di Bruno. Il cardinale Poupard tempo fa ha affermato:” Non credo che si possa o si debba parlare di riabilitazione perché, per quanto riguarda “il caso Giordano Bruno”, non ci sono gli estremi per una tale ipotetica operazione, come invece è avvenuto, ad esempio per Jan Hus e Galileo Galilei”.
Per certi versi, la Chiesa fa fino in fondo la propria parte nei confronti di Bruno. Riconosce, infatti, quel filosofo come “l’eretico impenitente” non solo verso i dogmi del cristianesimo, ma verso l’intera ideologia vincente della modernità, verso il suo emergente, aggressivo, modello di ragione, di conoscenza, di potenza, di convivenza, di soggettività. Non c’è dubbio che Bruno fosse il portatore di un paradigma radicalmente nuovo di valori, di società e di civiltà. La nozione di progresso del filosofo non era basata sullo sviluppo economico e strumentale, ma sulla piena esplicazione dell’intelletto umano, della sua dignità, della sua libertà, del suo conviviale e armonioso rapporto con la natura e la propria corporeità, secondo quanto scrive nella ” Cabala del cavallo pegaseo”.
Pochi pensatori hanno avuto il ruolo di Giordano Bruno nella cultura italiana ed europea. Pochi autori, infatti, continuano ad essere miti così profondi della coscienza europea, come il filosofo di Nola: colpisce la straordinaria ricchezza di una vicenda umana e intellettuale sviluppatasi, sul piano pubblico, nel corso di poco più di un decennio, ma capace di mettersi in discussione, variando i motivi strutturali della sua filosofia. Di più: colpisce la capacità di Bruno nel proiettare il suo sguardo sul futuro, di individuare aspetti fondamentali di una moderna visione dell’uomo, della civiltà, dell’universo; riuscì ad oltrepassare la visione copernicana, andando oltre l’impostazione matematica. Solo dopo Copernico, infatti, fu possibile spezzare le catene e intrepidamente dispiegare le ali verso la conoscenza e la verità. “Arcane porte, scrive Bruno, allora si aprirono e le prigioni si infransero di fronte allo spettacolo di un cosmo aperto, un universo infinito, immenso in ogni sua parte e tutto”. Riprendendo Lucrezio e andando oltre il “divino” Cusano, Bruno guadagna, dunque, una nuova visione dell’universo, che non è fondata su calcoli matematici o su osservazioni astronomiche, ma sulla sua capacità di intuizione. Come scrive Lovejoy, per quanto gli elementi della nuova cosmografia potessero aver già posto le loro radici in talune menti, è soltanto Giordano Bruno che deve considerarsi come il rappresentante principale della dottrina di un universo decentrato, infinito e infinitamente popolato poiché non solo egli predicò questa dottrina per l’Occidente d’Europa col fervore di un evangelista, ma diede anche per primo una compiuta enunciazione dei motivi grazie ai quali essa sarebbe stata poi accettata dal grosso pubblico.
La infinità dello spazio non era mai stata affermata in precedenza in modo così completo, definito e consapevole: la più chiara e potente presentazione a proposito dell’unità e dell’infinità del mondo si trova nel dialogo italiano “De l’infinito universo e mondi” e nel poema latino “De immenso et innumerabilibus”. Scrive Bruno:”Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo; in cui sono innumerabili e infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetemo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo”. Pertanto, ai pensatori medievali che si erano posti la antica e famosa quaestio disputata “perché Dio non ha creato un mondo infinito?” (questione cui gli scolastici medievali rispondevano negando la possibilità stessa di una creatura infinita) Bruno affermava semplicemente (ed era il primo a farlo):”Dio lo ha creato; Dio non poteva fare altrimenti”. Infatti, il Dio di Bruno, cioè l’alquanto fraintesa infinitas complicata del Cusano, non può che esplicarsi ed esprimersi in un mondo infinito, infinitamente ricco ed infinitamente esteso. “Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli: non in una terra, un mondo, ma in duecentomila, dico in infiniti.”
La perdita da parte della terra della sua posizione centrale e quindi unica, portò inevitabilmente alla perdita, da parte dell’uomo, della sua posizione unica e privilegiata in quello che è stato definito il dramma teo-cosmico della creazione, di cui l’uomo era la figura centrale e insieme la scena.
Altro tema di grande spessore nella filosofia di Bruno è quello della Natura. La Natura accoglie tutte le cose in una simbiotica fusione; essa, però, non è più il ricettacolo passivo che aspetta la sua forma da un principio spirituale separato, né tantomeno è la macchina morta che è lecito profanare e violentare, secondo la visione cartesiana e baconiana. La Natura (natura naturata) è mossa e fatta vivere da un principio vitale interno (natura naturans) che è come la sua anima e si identifica con la divinità. Essa è materia, ovvero la mater, la grande madre arcaica, attiva che, come scrive nel “De la causa, principio et uno”, “incessantemente partorisce le molteplici forme e specie esistenti traendole dal suo grembo come la donna gravida di prole”; è pertanto, ciò che dà la vita, che per questo motivo è unica e unitaria dovunque. Scrive Bruno:” Ovunque pulsa la stessa vita che è in noi, la tempesta è in noi come respiro, i fiumi son le nostre vene, le rocce son le ossa, e il cervello è nube, cielo e firmamento e la luna, la valle e la pietra son fratelli carnali.”(De l’infinito universo et mondi). Ma è, al tempo stesso, la trama segreta dell’intelligenza, anch’essa unica e unitaria dappertutto, che si caratterizza come Mens insita omnibus nella misura in cui rappresenta una forza vitale e intelligente capace di armonizzare le diverse parti secondo rapporti di omologia e reciprocità che rendono tutto intrecciato, tutto complesso.
In questa Natura l’uomo ha voluto prendersi un posto centrale, che in realtà non gli spetta; ma non v’è dubbio che di quella Vita e di quella Mente l’essere umano rappresenta il grado più elevato di organizzazione. Dalla Natura, peraltro, l’uomo ha ricevuto preziosi strumenti: la memoria, la magia e soprattutto la mano come strumento di intelligenza, tangibile manifestazione del lavoro umano e della sua straordinaria creatività.
Anche a proposito del concetto di materia Bruno introduce elementi di forti novità. Intanto supera la distinzione aristotelica tra materia e forma, che può valere per i singoli esseri in quanto rappresentano manifestazioni particolari e transeunti, ma non per l’universo nella sua totalità. Da ciò scaturisce che la materia è principio attivo, vero e propria energia creatrice; da questo punto di vista riprende Avicebron, secondo il quale c’è una sola forma e una sola materia, ricettacolo delle forme, e pertanto i singoli esseri della natura non sono in sé reali, ma solo formazioni temporanee dell’unica realtà universale. E sempre seguendo l’elaborazione di Avicebron, Bruno sostiene l’arditissima tesi che la materia non è solo corporea ma anche incorporea e non vive in modo separato dalla forma, così come la forma non vive scissa dalla materia. E questo legame in Bruno diventa unità, anzi identità.
Come ha dichiarato un eminente studioso, dobbiamo renderci conto che ci troviamo di fronte a uno dei più grandi pensatori della storia umana, che per tanti anni nelle carceri dell’Inquisizione soffrì atroci tormenti, che lo rendono il simbolo estremo della forza del libero pensiero e parallelamente dell’intolleranza religiosa.
In questi tempi, in cui intolleranza e negazione della libertà sembrano riaffacciarsi all’orizzonte della nostra società, il valore della testimonianza di Giordano Bruno ritrova tutto intero il suo valore simbolico e diventa monito contro ogni tentativo di cancellare la memoria per poter assicurare continuità e credibilità a un modo antievangelico di gestire l’istituzione ecclesiastica cattolica.
Giordano Bruno prima di morire bruciato vivo nella piazza di Campo dei Fiori, rivolgendosi alla Chiesa esclamò:” Forse avete più paura voi nel condannarmi che io nel subire la condanna”. Non c’è dubbio che in questa frase si riconosce il personaggio che nell’arco della sua vita è stato capace di sfidare i potenti d’Europa – re, principi, papi, cardinali e vescovi – con i quali era venuto a contatto dal momento in cui era scappato da Napoli per andare a Roma.
Dopo aver girato le principali corti europee, tornerà nel 1591 in Italia, a Venezia, su invito del nobile veneziano Mocenigo, che da lui desiderava apprendere l’arte della memoria, ma che l’anno dopo lo denuncerà per eresia al tribunale veneziano dell’Inquisizione. Le accuse nei confronti di Bruno sono pesantissime: secondo Mocenigo, il filosofo nolano rifiuta ogni religione, nega i dogmi cristiani e addirittura afferma che Cristo era un mago. Queste affermazioni pongono Bruno in una posizione molto distante da Erasmo, che su di lui aveva esercitato una profonda influenza: la sua conoscenza del pensiero erasmiano era già profonda durante il periodo domenicano e fu approfondita negli anni successivi. Epperò, per Erasmo dalla crisi si esce ritornando all’autentica predicazione evangelica, all’originario messaggio di Cristo, riformando la Chiesa. Per Bruno, invece, che interpreta la crisi del suo tempo anche in chiave ermetica, è vero il contrario: il mondo può riordinarsi e ringiovanire solo se dissolve le tenebre della religione asinina e pedantesca di Paolo e Cristo. L’atteggiamento di Bruno nei riguardi della religione ripete, o forse peggiora, quello di Averroè: la religione rappresenta un assurdo sistema di credenze; ha una sua utilità “per l’istituzione di rozzi popoli che denno esser governati”: è un complesso di superstizioni contrarie alla ragione e alla natura. Vuol far credere che la filosofia è una pazzia, che l’ignoranza è la più bella scienza del mondo.
Un altro tema che caratterizza la “nolana filosofia” è quello dell’infinito. Riprendendo Lucrezio e andando oltre il “divino” Cusano, Bruno guadagna una nuova visione dell’universo, che non è fondata su calcoli matematici o su osservazioni astronomiche, ma sulla capacità di intuizione del Nostro che porta alle estreme conseguenze l’impostazione copernicana.
La infinità dello spazio non era mai stata affermata in precedenza in modo così completo, definito e consapevole. Nella “Cena de le ceneri”, dove Bruno contrasta le posizioni classiche, aristoteliche e tolemaiche, c’è scritto:” Il mondo essere infinito, e però non esser corpo alcuno in quello, al quale semplicemente convenga esser nel mezzo, o nell’estremo, o tra que’ due termini…ha la sua causa e la sua origine in una causa infinita e in un principio infinito, esso deve essere infinitamente infinito, secondo la sua necessità corporea e il suo modo d’essere”. È un cosmo dove non esistono più dualismi metafisici, gerarchie ontologiche, supremazie temporali o spaziali, dove non si può più nemmeno separare il basso dall’alto, l’inferiore dal superiore, dove c’è insomma tolleranza, uguaglianza e libertà.
Bruno fu sicuramente uomo del suo tempo perché l’aspirazione alla libertà di pensiero appartiene al Rinascimento; certo però nessuno la espresse in modo radicale quanto lui. Altri suggerivano di procedere in “maschera”, cioè di dissimulare; Bruno, invece, pur riconoscendo la necessità di dissimulazione rese pubblico omaggio alla libertà. La Chiesa fu allarmata da questo metodo di pensiero, dalla capacità del nolano di proiettare il suo sguardo sul futuro, di individuare aspetti fondamentali di una moderna visione dell’uomo, della civiltà, dell’universo.