Il titolo di questo articoletto si rifà a una bellissima prefazione di un grande critico letterario, quale fu Geno Pampaloni, a proposito di un’opera semisconosciuta di Piero Chiara: “Con la faccia per terra e altri racconti”. La silloge di racconti, dapprima plaquette edita da Vallecchi nel 1965, fu pubblicata da Mondadori, ma non riuscì a garantire un soddisfacente numero di vendite, né del resto a ottenere un giudizio lusinghiero dalla critica (qualora la critica ne abbia riservato qualcuno alla prosa di Chiara).
Al di là del valore dell’opera, il cui giudizio spetta sin dai tempi più antichi al lettore, le pagine affrontano nel racconto iniziale, “Con la faccia per terra”, il primo (e unico) resoconto autobiografico del narratore lombardo sulle proprie origini. Infatti, checché si possa ritenere il grande narratore del lago Maggiore, le radici del grande albero che abbiamo potuto ammirare tra gli anni ‘60 e gli anni ‘80, sono siciliane. Il padre, Eugenio Chiara, nacque in Sicilia, precisamente a Resuttano (la Roccalimata del primo racconto). Dunque il narratore, come un novello Erodoto, decide di ripercorrere l’antico viaggio di gioventù e discendere in Sicilia, abbandonando l’aria del Continente. Riaffiorano così nella memoria dello scrittore barbagli di luce, sogni, incubi, rappresi negli occhi impastati di buio e confusi dal suono delle rotaie. Ma il nuovo viaggio, mentre quello onirico va dissolvendosi chilometro dopo chilometro, è rischiarato dalla luce della maturità che lo conduce, con un lungo pellegrinaggio automobilistico, nei medesimi luoghi dove sono seppelliti i suoi ricordi primitivi, una lenta e continua privazione estratta dal baule della vita ormai spenta, forse proibita; altrove, parafrasando il suo pensiero, egli dirà che aver ceduto al piacere del ritorno in Sicilia, come del resto a qualsiasi ricordo del passato, è come aver messo il dito nella bocca dei morti; una concezione diametralmente opposta a Bufalino, fautore del “memini ergo sum”.
Proprio quando il narratore penetra nella Sicilia più rocciosa, portandosi alle spalle il profumo marino della falce zanclea, la riscoperta delle proprie origini, condotta con pochi mezzi quasi da mondo neolitico (talmente rurale da far apparire Il Fogazzaro del Piccolo mondo antico futuro utopistico), diventa perdita di sé stessi, nemmeno disincanto, ma disfacimento della spazialità umana e geografica. I personaggi sembrano fuoriusciti da novelle verghiane; il clan familiare, appena incontrato, è chiuso nel suo silenzio gretto e nella sua spontaneità contadina, fatta di gesti semplici: un letto sistemato, una colazione servita di buon mattino, la lenta commemorazione di un ramo genealogico perduto, e la visita al parente più importante della famiglia: un prevosto del luogo che biasima la radicale proliferazione del comunismo in una terra irrimediabilmente destinata a rimanere come è (da sempre Tomasi di Lampedusa docet). E l’invito del parente-prete a vedere questi nuovi rivoluzionari “con la faccia per terra”, perché fautori del nuovo cambiamento, è un lieto melodramma che celebra il distopico tentativo di soffocare il “vecchio” (che in realtà farebbe meno danno dell’attuale) strozzando la speranza di portare la luce laddove da sempre si è radicato il buio. In questo e negli altri racconti (Era d’inverno, Fino a mezzanotte, Sull’ultimo cammello) delizioso fil rouge in onore della memoria paterna, si affronta per la prima volta uno degli aspetti meno approfonditi della narrativa chiariana: la sua sicilianità, la quale ha poi spodestato in tutte le forme della narrativa di Chiara, sebbene, come è stato sostenuto ad esempio da Mauro Novelli o da Massimo Perrotta, “i romanzi e i racconti di Piero Chiara appassionano grazie al loro caratteristico radicamento geografico” quello lacustre. Ma evitando i classici stereotipi delle identità culturali, le pagine di Chiara sembrano frutto di una trasposizione orale che acquista nuova veste sotto la forma scritta, e l’oralità è il frutto della pianta materna che ha dato vita all’innesto più bello, uno dei rami più prolifici della letteratura italiana. E mentre possiamo incaponirci su come l’isola-rompicapo appaia per lui incomprensibile, biasimando, o meno, l’unica soluzione possibile ovverosia “la decisione del siciliano di andarne fuori per sempre, di sposare una donna d’altra specie e di aver figli in altra terra”, ecco solo allora possiamo dire che questo figlio, fuoriuscito per un guizzo paterno d’anguilla, è figlio nostro, figlio di un’oralità scritta che ha trasformato il gesto in racconto, che ha recuperato un sostrato profondo, nascosto, ma evidente. Chiara non è geograficamente un narratore siciliano, ma lo è nell’indole, debitamente acquisita dal sangue.
Nel momento in cui l’acqua del suo lago avanza, la Sicilia prorompe in maniera silenziosa nella stentorea stenografia della vita, che poi non è tanto dissimile dal Brancati, anche egli narratore prediletto dal cinema. Non penso quindi che Chiara abbia voluto rinnegare le sue origini siciliane – mai nascoste peraltro -, come più volte ha testimoniato uno dei suoi amici, il poligrafo Mauro della Porta Raffo; egli ha semplicemente voluto raccontare quel mondo che conosceva meglio. Il resoconto che se ne offre è solo l’appunto di un lettore attento, il quale non vuole offrire un’appropriazione geografica legittima, bensì ideale. Però, se anche lo stesso Pampaloni si raccomandava affinché lo scrittore lombardo mantenesse quella goccia di sangue più scuro (“conservare memoria del brivido malinconico e turbato da cui è stato sfiorato nel suo contatto fugace con l’ombra della storia”), ritengo che qualcosa sotto la cenere delle pagine si sia consumata. Tutt’al più credo che l’abbia sempre mantenuta quella goccia, mai dimentico del suo pater familias, dal quale apprese la sacra arte del racconto (antico connubio di un crocevia culturale mediterraneo), che non smette ancora di farci emozionare tra un tradimento d’amore che si consuma al fuoco di un lanternino e un’altra storia da raccontare.