Il tentativo di Manzoni di dotare il romanzo di una lingua capace al tempo stesso del discorso vivo e diretto dei personaggi più popolari e della scrittura riflessa del narratore non ebbe, dunque, il successo sperato. Il suo toscanismo diventò per lo più coloritura essenziale, fissata su luoghi comuni prestabiliti e incapace di arrivare a soluzioni più organiche e innovative.
Manzoni aveva realizzato, per la prima volta in Italia, un progetto linguistico idoneo alle misure del romanzo e aveva trovato il modello che gli occorreva nel fiorentino vivo della classe media ottocentesca, cercò insomma di farsi modello per l’unificazione linguistica nazionale. Ma l’impraticabilità della sua adozione firmò la sua condanna all’insuccesso.
Il grande capolavoro arrivò con Verga e i Malavoglia. Verga riuscì a creare un italiano colloquiale, capace di reggere sia la parte del narratore che quello dei personaggi “umili”, creando una lingua che nell’insieme è prodotto della sua straordinaria invenzione artistica.
La critica, anche quella linguistica, si è sforzata di trovare un equivalente dell’italiano dei Malavoglia; ma Verga aveva prodotto una lingua originale, aveva reinventato l’apparato linguistico creando una lingua nuova e multiforme.
Si parla tanto del dialetto siciliano che troviamo nei Malavoglia, sia pure in maniera mimetizzata, ovvero dell’italiano regionale di Sicilia e dell’italiano parlato dai siciliani colti. In verità si tratta di una lingua, costituita da materiali diversi, in gran parte presi e raccolti dal dominio dell’oralità (dialettale siciliana e pan dialettale) e immessi in una sintassi originale (di cui il discorso indiretto libero è il cambiamento più importante), inconcepibile fuori dalla dimensione della scrittura letteraria.
Molti interpreti si sono lasciati influenzare dalle componenti più vistose della lingua verghiana, dimenticando che nel 1880 l’italiano era intriso di quel “color locale” che Verga dichiarava suo ideale e non poteva corrispondere ad una lingua etichettabile, poiché, se non aveva funzionato il prelievo del reale fiorentino, mai e poi mai avrebbe funzionato la grammaticalizzazione del siciliano.
Verga, per definire i margini della sua invenzione linguistica, prendeva la distanza dal dialetto, ma al tempo stesso non voleva che sfuggisse la componente di verità insita nel dialetto stesso e nella lingua del popolo, dimostrando con il suo stile il suo costante interesse per la ricerca di una verità linguistica diretta.
In realtà, Verga richiamava contemporaneamente i due poli che è riuscito a riavvicinare nella sua invenzione linguistica, che sono da una parte quello reale, vivo, del dialetto e del parlato e dall’altra quello letterario, astratto, dell’italiano e della scrittura.
Lo studioso Riccardo Ambrosini nota che “gli elementi dialettali nelle opere maggiori di Verga sono complessivamente pochi: rarissimi i termini e i brani in siciliano”.
In ogni caso anche analizzando i Malavoglia non mancano sicilianismi italianizzati e nascosti, come massaro, sciara, tarì, onze, salme, campare, buscare, paranza.
Per lo più questi sicilianismi italianizzati si trovano in locuzioni, modi di dire e proverbi. Nei Malavoglia i proverbi sono un centinaio e servono da veicolo della cultura popolare e locale, essendo, pur se in veste italianizzata, il costituente dialettalmente più forte e vistoso del romanzo.
Verga, utilizzando il discorso indiretto libero, moltiplica i tempi dell’imperfetto e del trapassato, fa ampio uso del racconto in terza persona singolare o plurale, inserendo la soggettività nell’apparente oggettività del racconto.
La grande novità sta nella sintassi e questo costituisce un fatto linguistico di dimensioni esclusivamente letterarie; l’eredità dei romanzi fiorentini, e dei Malavoglia poi, produrrà anche il cosiddetto monologo interiore, il “discorso rivissuto” che successivamente useranno Svevo e Pirandello.
Nel secondo capolavoro verghiano, il Mastro don Gesualdo, invece, verranno offerte nuove soluzioni, dando più largo spazio alla parola dei personaggi. Questi ultimi usano l’italiano radicato nell’oralità che già il precedente romanzo aveva sperimentato: sospensioni, esclamazioni e imprecazioni sono numerosissime. Si tratta, comunque, di una lingua che non scende mai sotto la soglia dell’oralità media, il discorso dei personaggi non si discosta molto da quello del narratore, che inoltre si appropria di tutto l’andamento del parlato.
Nel Mastro don Gesualdo si realizzò perfettamente “l’eclissi del narratore” e la struttura sintattica delle frasi regge perfettamente i casi del discorso indiretto libero e rende molto concreti i pensieri, i discorsi e le sensazioni dei personaggi.
Verga nel Mastro don Gesualdo, per utilizzare una precisione descrittiva, sfruttò molto la sinonimia (o parasinonimia) che non sarebbe dispiaciuta nemmeno a Manzoni.
Si può concludere che la lingua di ogni suo romanzo si prepara a catturare il vero senza eccedere, senza allontanarsi dal dominio linguistico del mondo di volta in volta rappresentato. Verga nelle sue opere mostra il vantaggio di utilizzare un nuovo stile narrativo, in grado di far comprendere l’interiorità del mondo che lo circonda e dei suoi personaggi.