Nasco a Luino il 27 luglio del 1913, qualche mese dopo Piero Chiara, Lago Maggiore del mio cuore, son lombardo, unico figlio di Enrico e di Maria, famiglia borghese e fascista, impossibile altrimenti. Mio padre, nazionalista e combattente, fonda la sezione del fascio di Luino, ma non è ottuso, comprende quel che accade, ché quando uccidono Matteotti si chiama fuori dalla mischia. Il ricordo degli anni di Luino è la mia infanzia, che mi forma, periodo felice, patrimonio intangibile di sogni, ricordo d’un canto che percorre la via principale del paese, come una nenia che culla le mie notti, poi una trincea, un fortino, l’ombra terrificante d’una spia che ci sorveglia dall’alto, tutto il suo mistero. Questo è quel che resta di Luino, poco o niente, le scuole elementari, i primi amici, dolce infanzia, ma la mia vita da studente ginnasiale comincia a Brescia, dove la famiglia si trasferisce perché io possa studiare. Brescia è la città degli amori, dello sport – calcio, tennis e nuoto -, della passione per una compagna di scuola, dimenticata, la ragazzina che canto in pochi versi, nel Diario d’Algeri, la canto nel ricordo, come un sogno.
Trascrivo le mie cose in un quaderno verde, clandestino, quando finisce compro un altro quaderno, sempre verde, pagine che conservano sentimenti giovanili, da diciottenne inquieto, innamorato. E poi la passione per lo sport, la Mille Miglia, la grande corsa della primavera, ricordo fugace di tanta adolescenza, veder passare le Mercedes, tifare come un pazzo a bordo strada, il sibilo delle macchine d’argento. Ho vent’anni quando vado a vivere a Milano, via Mario Pagano 42, quartiere di gente benestante, mio padre è impiegato di dogana, potrebbe vivere tranquillo senza spostamenti, lo fa per me, per farmi studiare senza aver problemi; sono il suo unico rampollo, modifica la vita secondo le mie esigenze, questo lo capirò solo da adulto.
A Milano compio il primo errore della vita, mi iscrivo a Giurisprudenza, ma duro pochi mesi, ché subito passo a Lettere e Filosofia. Tempo di fascismo, si fanno i Littoriali della Cultura, non posso non partecipare, con la mia voglia di scrivere che è innata, giungo secondo dietro a Sinisgalli, insieme a Bonfanti. Il mio maestro è il grande Antonio Banfi, da lui conosco Proust, Mann, Wilde, Ibsen, Dostoevskij, ma mica come sterile apparato di nozioni, no davvero! Per Banfi capire l’arte significa aderire al suo tessuto, in modo da formare il gusto estetico, la nostra educazione. Poeta nasco, certo, ma un poco lo divento in quella piccola accademia letteraria, al bar tabacchi di piazza Sant’Alessandro, tra chiesa e palazzo Brivio, presieduta da Luciano Anceschi (era il più vecchio), dove incontravo pure Bonfanti, Manzi, Carta, Antonia Pozzi … in un luogo che avevo rinominato il Baccanino, osteria di basso rango, il trani milanese, ché in bresciano bacan (baccano) quello vuol dire. Piango un amico, povero Gian Luigi Manzi, morto suicida dopo il compleanno dei vent’anni, troppo immedesimato in Thomas Mann, dopo la tesi, e nel personaggio di Tonio Kröger.
Altri amici si laureano con Banfi, prima Anceschi con una tesi d’arte, poi Carta con uno studio su Rimbaud, infine Antonia Pozzi che s’innamora di Flaubert, scrive una tesi così bella da meritare lode e medaglia, ma la pubblicazione soltanto dopo morta, che non vivrà molto, povera dolce amica. Il mio primo vero amore lo incontro a ventitre anni, Maria Luisa Bonfanti, parmigiana di Felino, città del salame, iscritta a lettere, ma la cosa pare non durare, finisce con un Temporale a Salsomaggiore, resta motivo estivo d’una lirica, tra le più belle, tra le più vissute. Si spegne il tempo e anche tu sei morta. Non è così vero, poi vedremo. La mia tesi la scrivo su Gozzano, poeta che amo e che studio con passione, ma il voto è soltanto 110, senza lode, senza troppi onori, nonostante Banfi sia convinto relatore, a Galletti il lavoro mica piace. Amareggiato e affranto, in fondo penso che la vita non si fermi a un voto sulla tesi, mi rimetto a scrivere e pubblico Terre rosse sul Meridiano di Roma, la prima lirica stampata su un giornale. Per poche ore, appena il tempo di vergare su carta un pugno di parole, rivedo Luino e la mia fanciullezza, una passeggiata a ora tarda per le strade del paese mi mostra intatti tutti i miei ricordi. Non accade niente, solo il risveglio di istanti del passato, cose che servono soltanto a fare piccola poesia dimenticata.
La vita è altro, si deve lavorare, supplente di materie letterarie al tecnico Schiapparelli di Milano, ho 24 anni, d’estate vado al lago, torno a Luino, conosco Bianca, che ha solo 15 anni, non è amore – lei è così piccola! -, ma fascinazione per un’acerba bellezza, per la suggestione del suo bianco volto che par figurazione della morte, tutte emozioni che finiscono in Frontiera. Di tanto in tanto sogno i suoi occhi, la vedo nuotare, verso l’estrema resistenza dell’estate, dall’altra parte del lago, immagino di nuotarle accanto, sfiorarle i capelli, carezzare il pallido volto. Torno a Milano ed è di nuovo scuola, supplente al Magistrale femminile Carlo Tenca, pure assistente di Estetica con il Maestro Banfi, ma pubblico versi, quella è la mia vita: Inverno a Luino e Concerto in giardino, sul Frontespizio, me li presenta niente meno che Betocchi. Una svolta per la mia vita di poeta è la rivista Vita Giovanile, fondata da Treccani, che diventa Corrente di Vita Giovanile, dove scrive di cinema anche Lattuada, per l’arte De Grada, Del Bo discetta di politica. Il mio saggio su Alfonso Gatto finisce in quelle pagine, anche alcune poesie come Temporale a Salsomaggiore (una tempesta per la mia vita) e Canzone lombarda.
Sono stato tra i fondatori di Corrente, tu pensa non me ne sono neanche accorto, ero troppo giovane, una rivista che faceva da polo d’attrazione, luogo d’incontro della meglio gioventù lombarda. Lo studio mi prende il tempo d’un corso che seguo a Urbino, ventosa e poetica m’ispira un nuovo canto, poi torno a Milano e vivo in via Scarlatti, al 27, per fare il supplente d’italiano e latino al liceo Manzoni, scuola prestigiosa. Intanto torna la mia ragazza di Felino, proprio quando la credevo ormai perduta, ma rivedo anche Bianca, che ha sedici anni, un poco è cresciuta, ma non troppo. Maria Luisa è l’amore della vita, poco dopo rivista ci sposiamo, è inevitabile, adesso è finito il temporale, torna il sereno sui sentieri della vita. Ma il suicidio di Antonia è un fulmine nel cielo che squarcia nubi e sogni disperati, devo persino scriver su Corrente e Campo di Marte, che ci ha lasciati una grande poetessa, con lei mi univa forte l’amicizia, i vecchi studi e i temi che scrivevo, erano versi di un unico sentire. Adesso siamo tutti un po’ più soli. Ho appena il tempo di polemizzare con Russo e con Villaroel, per difendermi da accuse che vorrebbero far tacere voci libere, che la guerra chiama, tutto si deve abbandonare.
È il primo luglio 1939, sono a Brescia, 77° Reggimento Fanteria dei Lupi di Toscana, sottotenente di complemento. Ogni tanto scappo a Parma, di domenica, dove incontro Maria Luisa, spero tanto che la nostra non belligeranza vada avanti, che non si debbano usare armi e fucili. Vinco una cattedra di latino e storia proprio a Modena, vicino alla mia bella, mentre progettiamo il matrimonio, ma a giugno mi richiamano alle armi, ché l’Italia è in guerra contro Francia e Inghilterra, proprio mentre mi sposo (il 19 giugno!) durante una licenza. Destinazione fronte francese, Garessio, Val d’Inferno, verso Cuneo, paese pieno di chiese, azzurre nell’ora notturna, a pochi chilometri dal mare, conserva sentori d’aria marina. Per fortuna la mia guerra dura poco, son docente di ruolo e mi congedano, torno a insegnare a Modena, scampo la campagna di Grecia, orribile e nefasta, vivo in piazza Mazzini, numero 43 e – la cosa mi sorprende – riprendo a scrivere, forse per il dolore della guerra, forse per la tristezza di quei tempi duri. Frontiera nasce nel 1941, trecento copie numerate con un incisione di Birolli, edito da Corrente, quasi lo stesso giorno di mia figlia, Maria Teresa, dai nomi delle nonne, che tutti chiamiamo subito Pigot.
Ma la guerra non finisce e devo tornare a combattere a ottobre, Divisione Pistoia, rafferma a Bologna, una città tetra, piena di soldati, di reparti, gente di passaggio per il fronte, con quei cappotti logori che sarebbero serviti per la Russia. Sarei destinato a El Alamein, dovrei raggiungere l’Africa passando dalla Grecia, ma non accade, per il momento stiamo fermi, in attesa di un fronte africano, prima o dopo. Mentre aspettiamo di andare in guerra per davvero esce il mio Frontiera per Vallecchi, editore importante, con alcune liriche vecchie e nuove; capita che incontri anche Montale, a Firenze, dalle Giubbe Rosse, dove mi fermo con Parronchi, parliamo di guerra, esercito che lotta, di come sembra che vadano le cose. Nel 1943 mi mandano in Sicilia, a Castelvetrano, vicino Trapani, dove mi dovrei imbarcare per la Tunisia, ma ci vado solo da prigioniero, quando sbarcano gli alleati e mi catturano, a Paceco, alla vigilia del crollo del regime, il 24 luglio del 43. Mi gettano dentro il campo di calcio di Trapani, insieme a tutti i prigionieri, una folla stravolta che non sa che fare, un giovane soldato americano spara come un pazzo, un commilitone cade al suolo e muore.
Mi mandano in Algeria, porto di Orano, poi in Marocco, prigioniero nei campi alleati, consapevole dell’inganno subito, d’una vita strozzata dalla guerra. Tutte le mie prigioni, fino al 1945, sono annotate nel Diario d’Algeria, in calce a ogni lirica indico il luogo dov’è stata scritta, sia Saint Barbe o Saint-Cloud, come Fedala, presso Casablanca. Siamo quasi inconsapevoli di tutto quel che in Italia accade, niente sappiamo del 25 aprile, niente dei partigiani, dei campi di sterminio, confinati in un angolo morto della storia, in attesa che finisca la nostra prigionia. Quando giungono gli autocarri a caricarci per il porto di Casablanca e per le navi Liberty destinate a Napoli non siamo per niente allegri, non sappiamo quel che ci aspetta, quel che vogliamo è solo uno spiraglio di libertà. Finisce la guerra e cambio vita, torno a vivere a Milano, in via Scarlatti, al 27, con mia moglie e con Maria Teresa, che durante i combattimenti stavano a Felino. La convivenza non è facile, viste le ristrettezze economiche e sociali, la diversa mentalità, il bisogno di conoscersi, ché la guerra ci ha divisi troppo presto. Insegno in via Settembrini, a due passi da casa, conosco Umberto Saba, un vero amico, poi Aldo Borlenghi, Nelo Risi e Fabio Carpi.
Son repubblicano, faccio il redattore al Giornale di Mezzogiorno, un quotidiano fondato da Riccardo Lombardi che sostiene la necessità di liberarsi della monarchia. Siamo i primi a dare la notizia di un’Italia libera e repubblicana. Vinco un premio a Lugano per il Diario d’Algeria, ancora inedito, mentre insegno italiano e son vice preside al Magistrale, in via Cagnola. Il Diario esce per Vallecchi, nel 1947, insieme alla mia seconda figlia, Silvia, in un periodo duro, non basta lo stipendio da insegnante, quindi mi metto a fare il traduttore per Einaudi e per Mondadori. Traduco Valery e Green, libri come Leviatan, Eupalinos, L’anima e la danza, Dialogo dell’albero, scrivo per La frusta libera, diretto da Vitale, per cercare di restituire dignità politica e morale alla mia terra. Vado a insegnare al liceo classico Carducci di Milano, scrivo per Rassegna d’Italia diretto da Sergio Solmi, faccio il critico letterario per Milano Sera, ma le mancanze restano le stesse. Poche vacanze, insieme alla famiglia, con l’amico Bonfanti, sul lago di Como, in una villa del Ticino, quindi in Austria, ma le ferie importanti sono a Bocca di Magra, nel 1951.
Amico di Solmi, passo il tempo a cercare un caffè che faccia da ritrovo, forse per ricordare l’antico Baccanino; dopo la guerra c’incontriamo in una latteria, in via San Paolo, poi al Blu Bar, un locale elegante tra piazza Matteotti e piazza Belgioioso, dove c’è la casa del Manzoni, un luogo scomparso, al suo posto c’è una banca. Milano ha perso l’anima dei luoghi dove andavo con Anceschi e Zanzotto, Spagnoletti, Ferrata e Bonfanti a parlare di politica e arte, poesia e letteratura, i miei soli amori. Dicono di me che non son facile da capire, che son schivo e troppo riservato, aggiungono che son preda di facili entusiasmi, di rancori eccessivi, persino immotivati. Il mio animo resta legato ai giorni dell’infanzia, sono un mistero anche per me stesso, ma non posso essere diverso da chi sono, questa è la mia natura, solo nei versi riesco a far capire il mio vero sentire. Nel 1952 lascio la scuola ed entro alla Pirelli, dove dirigo l’ufficio stampa e propaganda, per promuovere un’azienda in prima fila per la cultura, divento amico di Giovanni Pirelli, dirigo la rivista aziendale che si occupa di arte e letteratura, un luogo diverso dalla scuola, ma importante per il mio mestiere di innamorato di cose letterarie.
Una scelta radicale che in fondo cambia in meglio la mia vita, come stipendio e come visione culturale, ché Pirelli non fa solo gomme, anima Milano, nel teatro, nelle mostre, in tutto quel che merita scoprire. Son momenti di silenzio creativo, come li chiamo, ché son così impegnato da non riuscire a scrivere, il clima che si respira in fabbrica in un periodo così denso di scontri e di pulsioni politiche e sociali, assorbe ogni energia, approfitto del tempo per mettere a fuoco, per capire. Scriverò più tardi. Muore mio padre, quando compio quarant’anni, da poco vivo senza di lui, con moglie e figlie, in via Macchi, quindi in via Marcello, una villa tra gli alberi in una grande arteria. Mio padre aveva vissuto per me e per i miei studi, quello voleva che facessi e quello ho fatto, adesso che mi manca comprendo quanto sia stato importante. Tre anni dopo nasce Giovanna, la mia terza figlia, un’altra gioia nella casa milanese, proprio quando per conto di Pirelli vado a Parigi, che vedo per la prima volta, e ricomincio a scrivere; sarà la bambina, ma la vena si riaccende ancora. Un lungo sonno, quel che è stato la mia assenza dalla letteratura, in fondo, che vince anche un premio chiamato Libera Stampa.
Muore anche mia madre, adesso sono solo, ne son consapevole, purtroppo, è il 1958, stesso anno che vengo nominato dirigente, credo d’esser stato l’unico poeta capace di dirigere un settore di un’azienda. Stesso anno che passo a Mondadori, dove mi occupo di libri, son direttore editoriale, collaboro con gli scrittori, scelgo i titoli da pubblicare, lancio giovani promesse, coltivo nuove leve, immerso nel mio mondo. Non amo i premi letterari, ma mi lascio convincere a entrare in giuria per il premio italo – svizzero Libera Stampa, che avevo vinto con Un lungo sonno, perché amo il Ticino, i suoi luoghi, la sua gente. Altri libri vengon pubblicati nei primi anni Sessanta, traduco Williams insieme a Cristina Campo, escono Gli immediati dintorni per Il Saggiatore, fondo la rivista Questo e altro – la letteratura e tutto il resto, quel che le sta intorno! – con quel toscanaccio di Geno Pampaloni, insieme a Gallo e Isella.
Che belle le riunioni in redazione, il venerdì sera, insieme ai giovani Raboni e Bellocchio, Cherchi e Tadini, pure ai vecchi Ferrata e Arcangeli! Pubblico L’opzione con Scheiwiller, dopo che è uscito su Questo e altro, in allegato, poi rivedo Diario d’Algeria e lo mando in stampa finito e corretto, insieme a Gli strumenti umani. Frontiera esce ancora, il mio libro migliore, per Scheiwiller, con sistemazione nuova e versi inediti, ma la cosa che più mi appassiona è scoprire scrittori, nuovi talenti, gente come Cattafi e D’Arrigo, oltre a sostenere Chiara, amico dai tempi di Luino. Son uomo di Mondadori, vicino ad Alberto come idee, più avventuroso del prudente Arnoldo, insieme a lui facciamo una vera casa editrice di scrittori, fondiamo persino Il Saggiatore, io fungo da mediatore tra il giovane e il vecchio, ma sto col nuovo, c’è poco da fare. Cambio casa, vado in via Paravia, a due passi da San Siro, il luogo dove amo passare le domeniche, tifando Inter, la squadra del mio cuore. Amo anche le auto, dalla vecchia Seicento adesso guido Alfa, mi dà più soddisfazione.
Viaggio molto per il lavoro editoriale, Stati Uniti, Toronto, Praga, Barcellona … Siamo ad aprile del 1969 quando mi prende la voglia di tornare in Sicilia con moglie e figlia tredicenne, dove ho fatto la guerra, ho atteso l’invasione, ventisei anni dopo per sentire il profumo del passato, per ritrovare le tracce che ho lasciato. Un’esperienza di ricordo produce Ventisei, un testo che ricorda i frammenti d’una sconfitta, il diario d’Algeria, il vento che soffia sulla storia. Gli orologi di Trapani segnano tutti la stessa ora, le sei e trenta del pomeriggio, quando raggiunsi la caserma con il mio reparto. Triste madeleine del mio passato, anche se le cose di poco son cambiate, tutto è al suo posto, anche se lo sterrato d’un tempo è ormai asfaltato. Pochi mesi dopo, a Parma, si sposa Maria Teresa, proprio lei mi darà una nipotina di nome Laura e pure la gioia di occuparsi di tutti i miei figli letterari, di curare la memoria dei miei scritti, di quel che ho fatto per tutta la mia vita. Un posto di vacanza è un’altra esplorazione letteraria, durante un soggiorno a Bocca di Magra, il mio luogo di vacanza preferito, il posto dove tornare a riposare; ci vinco un premio all’Accademia dei Lincei, me lo consegna il Presidente della Repubblica in persona, Giovanni Leone. Mi dedico a sistemare le raccolte, le traduzioni, gli Strumenti umani in una nuova edizione; viaggio molto, Egitto, Messico, Parigi, Mosca, Leningrado, dove ricevo nuovi spunti per L’opzione, per scrivere liriche che metto in Stella variabile, prima di morire.
La Mondadori non è più la casa editrice d’una volta, morti sia Arnoldo che Alberto, cambia anche la sede che spostano a Segrate, per questo lascio la Direzione Editoriale e vado in pensione, 65 anni li ho raggiunti, resto come consulente, memoria di tutto quel che ho fatto. Ho più tempo per la mia Bocca di Magra, il posto di vacanza dove torno con frequenza, poi curo Portus lunae, insieme ad alcuni amici raccolgo scrittori del passato – da Marziale a Bassani! – in un’antologia del sentimento. Prima del viaggio in Cina, mi dedico alla città natale, con La Rotonda, un almanacco in sei numeri, fatto con qualche amico, immancabile Chiara, nato a Luino come me. Traduco Corneille, edito uno speciale Stella variabile con litografie e Il sabato tedesco con Il Saggiatore, che aiuto a crescere, facendo il consulente, per far uscire qualche giovane poeta. Tengo conferenze sul lavoro di poeta, sul Petrarca, pubblico traduzioni che mi fan vincere un premio. Faccio in tempo a vincere il Viareggio, è il 1982, viaggio in Provenza con amici romagnoli, ricevo le prime copie di Graziano, un capitolo di un libro da finire, ma non posso. La traversata di Milano resta il mio sogno incompiuto, per un maledetto aneurisma che a settant’anni non finiti mi toglie il tempo da dedicare alla ricerca d’un altro verso, di un’ultima speranza del passato.