Yungblud è uno specchio che riflette ombre, colori, paure e guerre di questa generazione. Venticinque anni di fuoco, insicurezza e libertà. L’album omonimo, uscito il 2 settembre, è un autoritratto vivido e intenso con cui Harrison dipinge una via tortuosa e tumultuosa nel suo inconscio, invitandoci a camminarla fino a raggiungere la sua anima.
Una ricerca ostinata e convinta dell’essenziale, di una parola nascosta nel cuore. Tredici tracce con cui Yungblud si distacca in parte da quanto proposto in Weird!, un disco stilisticamente rock e più incline alla sperimentazione (Superdeadfriends, The Freak Show), per abbracciare una composizione pop decisamente più lineare e orientata a trovare la hit.
Al di là del tanto pronosticabile quanto insipido duetto con Willow, l’album offre alcuni spunti interessanti e alcuni momenti brillanti, come il banger Don’t Feel Like Feeling Sad Today e le ballad Die For A Night e Sweet Heroine, due futuri classici nella produzione del rocker di Doncaster. Tissues segue le orme di The Funeral, destinata a risuonare abbomba (termine tecnico) nelle radio di tutto il mondo. The Boy In The Black Dress è la vera gemma del disco.
Sottotono, invece, è la cacofonica I Cry 2, un pezzo con un autotune talmente esasperato e invadente da risultare di cattivo gusto. Inoltre, non si può non notare la somiglianza tra il ritornello di Sex Not Violence e quello di Viva La Vida dei Coldplay (che io dico, ma con tutte le persone da cui si può rubare, da Chris Martin?!).
Tuttavia, questo non è esattamente l’unico brano nella produzione dell’artista a sapere di già sentito, ma qui si supera abbondantemente il confine dell’ispirazione. Yungblud è quindi un disco solido e personale, massiccio. Un diario scritto col cuore e piacevole all’ascolto, indubbiamente carente di slanci sorprendenti (purtroppo!) ma fedele alle aspettative create coi singoli. Con un filo più di coraggio e intraprendenza, staremmo parlando di un piccolo capolavoro.